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ANAC: il cinema è comunità

DI MARTA RIZZO
Eletti i nuovi organismi dirigenti dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici. Dacia Maraini: «Il buon cinema resiste e riesce a procurare emozioni estetiche ed etiche» – Mimmo Calopresti: «Sono centinaia le famiglie di chi lavora nel cinema a causa della pandemia, sono in gravissima difficoltà economica. L’ANAC si occuperà anche di loro»

Sul finire del 2020 (il 28 dicembre), il cinema ha compiuto gli anni: 125, portati con continui adattamenti alle mutazioni del tempo, tenendo sempre presente che questa è l’unica arte in cui la peculiarità del regista ha ragion d’essere solamente se viene condivisa con decine di persone che lavorano con lui, prima che con gli spettatori. E sul finire del 2020, tra i più memorabili e silenziosi della Storia contemporanea, in Italia, sembra tornare viva un’associazione che, dal 1952, cerca di tenere uniti gli autori di questo unico meccanismo di combinazione tra arte, tecnica, industria e politica che è il cinema. L’Associazione Nazionale Autori Cinematografici (ANAC), in questi giorni di festa del cinema, diffonde la notizia interessante del rinnovo degli organi associativi, avvenuto su piattaforma, tutti collegati dalle proprie case: Dacia Maraini, Pupi Avati, Ricky Tognazzi ed Ezio Alovisi vengono eletti Probi Viri; entrano nel Consiglio Esecutivo Mimmo Calopresti, Giuseppe Gaudino, Giovanna Gagliardo, Emanuela Piovano (nominata anche vice presidente ANAC), Giuliana Gamba, Umberto Marino, Giacomo Scarpelli, Caterina Taricano. Quello che stupisce qui, non è solamente il valore autoriale di chi ha aderito, ma l’adesione in sé. Che accade, in questo impietoso 2020? Si è, forse, risvegliato, in questo vuoto imposto dal virus, una nuova esigenza di appartenenza, di condivisione, di comunità, nella società e tra gli autori? Una forma di ritorno alla Storia degli autori del cinema italiano, per progredire in nome di un passato comune e condiviso? Lo chiediamo a Dacia Maraini e Mimmo Calopresti.

“Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica (1948)

La storia dell’ANAC.

L’Associazione degli autori di cinema nasce nel 1952, dopo lo scioglimento della precedente Associazione Culturale Cinematografica Italiana (nata nel 1944), che univa autori cinematografici, critici e uomini di cultura ed era presieduta da Cesare Zavattini. L’ANAC nasceva da un gruppo di autori tra i quali Age, Alessandro Blasetti, Mario Camerini, Furio Scarpelli, Cesare Zavattini. Dell’ANAC potevano far parte registi e sceneggiatori cinematografici. Le finalità comprendevano obiettivi culturali e politici, tutti legati da un principio comune: la libertà di espressione.

In quel 1952, il cinema italiano aveva fatto i conti con la privazione di tutte le forme di espressione imposta dal Fascismo e, finalmente, portava agli occhi del pubblico una realtà sconosciuta: veniva liberato dalle censure del regime il film Ossessione, che Luchino Visconti aveva realizzato in pieno Fascismo, nel 1942, suo esordio. Da questo film, esplodeva uno dei fenomeni più straordinari della storia del cinema: combinazione tra dovere di raccontare, tensione morale, esigenza narrativa personale e necessità di condivisione e ribellione, il Neorealismo si spalancava agli occhi degli spettatori italiani e internazionali con Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno zero (1947), titoli tra i più emblematici della rinascita dell’Italia, attraverso il cinema. Nel suo oltre mezzo secolo di vita, l’ANAC ha agito intrecciando esigenze ispirate agli interessi diretti, materiali e morali, degli autori e quelle dettate dagli interessi più generali di tutta la cultura italiana. La prima contestazione alla Biennale di Venezia è del 1960. Subito dopo iniziano gli interventi decisivi contro la formulazione della nuova legge sulla cinematografia: i vertici dell’ANAC, il cui presidente era all’epoca Damiano Damiani, misero in crisi il primo governo Moro. Negli anni della protesta studentesca, tra il 1968 e il 1970, l’ANAC (con presidenti come Ugo Gregoretti, Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini e Gillo Pontecorvo), crea un ampio fronte di trentuno associazioni culturali e professionali: da Magistratura Democratica all’ARCI, dalla Psichiatria Democratica di Basaglia alla nuova e insperata adesione di Cgil Cisl e Uil. Le politiche dell’ANAC si riveleranno determinanti negli anni immediatamente successivi, quando la riforma della RAI diverrà una necessità. Nel 1976, con la nascita delle prime emittenti televisive private, i film potranno essere trasmessi sui teleschermi, senza vincoli. Per il Cinema italiano questa diffusione incontrollata di film segnò l’inizio di una crisi. L’offerta cinematografica nelle sale passa, in pochi anni, dal quattromila a settecento trenta sale (1985).

“La dolce vita” di Federico Fellini (1960)

Da allora, ecco alcuni punti base delle rivendicazioni politiche dell’ANAC, nei confronti dei futuri governi, a favore del Cinema italiano: garantire la libertà di espressione, realizzazione e diffusione delle opere e la libertà di scelta degli spettatori; modificare il sistema cinematografico organizzato in funzione del massimo profitto e caratterizzato dalla concentrazione delle sale che impedisce la libera circolazione delle opere, nonché dal monopolio del noleggio con la sua rigida selezione e programmazione della produzione che impedisce il libero confronto delle tendenze artistiche e culturali; la necessità di una legge antitrust in grado di limitare la proprietà, la gestione e la programmazione delle sale.

Intanto, la produzione dei film andava diminuendo di anno in anno, tanto che dai trecento film degli anni Cinquanta e Sessanta, si passò, a metà anni Ottanta, a meno di cento film, quasi tutti prodotti senza autonomia e quasi tutti con aliquote di finanziamenti RAI. Gli interventi dell’ANAC si rivelarono di nuovo indispensabili. Con la Vertenza Cultura l’ANAC, nel 1983, insiste con forza sulla necessità di una radicale riforma del sistema audiovisivo e intraprende azioni che, nel 1987, portano a una svolta della politica cinematografica. Gli inizi degli anni Ottanta furono decisivi, per l’ANAC, anche in campo internazionale. Con la presidenza di Francesco Maselli, insieme a un gruppo ristretto di associazioni di autori europei, l’ANAC promuove la fondazione della Fédération Européenne des Réalisateurs de l’Audiovisuel (FERA), con sede a Bruxelles. I primi incontri erano iniziati fin dal 1976 (Italia e Francia, Germania, Ungheria), ma presto il numero divenne più consistente. All’incontro di St. Etienne del gennaio 1980, si aggiunsero Gran Bretagna, Belgio, Grecia e Spagna. Nello stesso anno gli incontri seguirono a Venezia. Successivamente, l’ANAC realizza un’alleanza imprevedibile con la storica associazione dei produttori (l’ANICA), di cui era presidente Franco Cristaldi. La vecchia politica degli imprenditori cinematografici viene ribaltata a vantaggio di una alleanza con la linea degli autori, basata sulla qualità e su un sostegno finanziario ai film per farli nascere indipendentemente dai contributi delle emittenti televisive. La nuova legge, voluta dall’alleanza tra autori e produttori, porta la data del 1994. La produzione di film viene rilanciata, ma non viene eliminato del tutto il vincolo del Cinema alle reti televisive e alle loro logiche. Negli anni che seguono, l’ANAC rinnova il proprio statuto, per renderlo più adeguato ai nuovi tempi di un cinema e di una cultura in rapida evoluzione. È il momento in cui alcuni soci autorevoli vanno a formare una nuova associazione che unisce in sé autori e produttori, come era già avvenuto in Francia: l’API (Autori Produttori Italiani). Alla presidenza di Maselli, succede quella di Carlo Lizzani, fino a Ugo Gregoretti. Uno dei nodi determinanti delle battaglie dell’ANAC resta la difesa e il rilancio dei Diritti Morali e Materiali degli autori, insieme al riconoscimento del diritto alla libertà di creazione. Una lotta per la quale l’appoggio e il sostegno della FERA sono stati fondamentali. Tra le importanti iniziative dell’ANAC, in campo nazionale e internazionale, ricordiamo la nascita della Coalizione Italiana per la Diversità Culturale del 2009, promossa dall’ANAC in collaborazione con la SIAE (Società Italiana Autori Editori), l’Accademia di Santa Cecilia, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

Parlano Dacia Maraini e Mimmo Calopresti

Pier Paolo Pasolini, al centro, fu presidente dell’ANAC

Libertà di espressione, difesa dei doveri e dei diritti morali e realizzativi degli autori, tutelare la natura di ciascun autore per tutelare quella di tutti, usufruire delle trasformazioni e dei progressi tecnologici come le piattaforme, ma privilegiare su tutto il luogo consacrato alla collettiva visione buia e silenziosa del film nelle sale cinematografiche. Questi sembrano essere, quindi, i nuovi e i vecchi principi fondamentali dell’ANAC.

Con la morte di alcuni grandi soci e ispiratori dell’associazione, da Pontecorvo a Lizzani, da Scola a Gregoretti, l’ANAC degli ultimi anni sembrava smarrita, di fronte a esigenze di mercato sempre più pressanti e a padri eccellenti che non potevano più segnare nuove rotte, se non tramite la memoria. Da quelle memorie di quel cinema italiano, però, il presidente Francesco Martinotti, assieme a chi nell’ANAC ha sempre visto un collante tra la società e la cultura, sono riusciti a motivare e coinvolgere altri autori: alcuni nomi inaspettati, altri anarchici a tal punto da sembrare imprendibili, altri ancora talmente saggi e consapevoli della necessità di difendere il «nome dell’autore», come diceva Michel Foucault, da sembrare quasi estremi.

Dacia Maraini, la sceneggiatrice, scrittrice e giornalista che tutti conoscono come esempio di autorialità indiscutibile, e Mimmo Calopresti, autore tra i più autonomi, internazionali e allo stesso tempo profondamente legati all’Italia e al suo Sud, raccontano perché hanno deciso di entrare in una coalizione, laddove il virus dovrebbe, a rigore di logica, tenere tutti più distanti.

DACIA MARAINI

Cosa l’ha spinta ad accettare di entrare nel Consiglio dei Probi Viri dell’ANAC?

«Penso che in questo momento di frammentazione e dispersione dei talenti ci sia bisogno di un luogo e uno spazio in cui ci si riconosca e si creino alleanze vitali fra le varie arti: narrativa, cinema, teatro, poesia, musica non sono mondi lontani e separati, ma fanno parte del comune linguaggio di crescita e di consapevolezza di un paese».

In questo tempo impaurito si può ridefinire il concetto di comunità, di appartenenza a un gruppo, per condividere e portare avanti politiche e ideali comuni?

«Certo che è possibile, anche se la paura tende a frammentare i rapporti e ad allontanare le persone le une dalle altre. Ma c’è chi resiste e chi sa che mantenere rapporti, anche se per il momento solo via remoto, è importantissimo…».

Come è cambiato il mondo autoriale italiano degli anni Sessanta e Settanta? È ancora possibile, utile, sensato fare un parallelo, più che un paragone, con quell’epoca che, indubbiamente, ha cresciuto intellettuali di altissimo spessore, come forse non è più successo da allora?

«Non si tratta di nostalgia senza soluzione, ma di ammissione e consapevolezza del fatto che una certa politica e, quindi, una certa cultura, si siano trasformate, col tempo. La differenza sta tutta nella progettualità e nelle idee condivise. Quando una collettività si proietta verso il futuro con fiducia e voglia di cambiare, nasce l’entusiasmo e l’impegno. Oggi viviamo in un tempo di delusione e di isolamento, di personalismi e lotte furibonde per il potere. Gli artisti testimoniano del proprio tempo».

“Marianna Ucria” di Roberto Faenza (1997)

Quali sono i tratti comuni, oggi, tra gli autori italiani?

«Ci sono due atteggiamenti: uno legato alla cronaca e all’attualità che riguarda soprattutto i cineasti impegnati che si interrogano sul che fare, che si concentrano sul reale e lo incalzano. L’altro più a lungo termine si dedica all’approfondimento dei rapporti privati, soprattutto in famiglia. Non c’è dubbio che la famiglia stia cambiando e gli autori cercano di capire come».

Da quasi un trentennio gli autori sembrano aver privilegiato un atteggiamento individualistico, chiuso, asettico, con una forma di diffidenza e autoreferenzialità poco adatte alla crescita, alla diffusione delle idee e delle aspirazioni. Pensa che la pandemia e il diffuso senso di smarrimento, di compassione (patire insieme) che porta con sé, stia facendo tornare la voglia di condividere, di confrontarsi, di mettersi in gioco da parte degli autori?

«In quello che descrivi c’è del vero, ma se andiamo a vedere, nome per nome, film per film, ci accorgiamo che il panorama è diversificato, complesso e vario. Gli autori veri cercano sempre il sommerso e l’invisibile, per raccontarlo a modo loro. E se sono sinceri e poetici, riescono a comunicarlo. Come hai detto giustamente il lungo periodo berlusconiano non ha incoraggiato una atmosfera creativa. Abbiamo vissuto in una società di mercato in cui contava soprattutto la produzione anziché la creazione e questo ha provocato molti danni. Ma il buon cinema resiste e riesce a procurare emozioni estetiche ed etiche».

C’è ancora la possibilità di guardare alla crescita della cultura e delle idee, al servizio della comunità e con i piedi piantati nella Storia del Paese, con fiducia e lungimiranza, a prescindere dai mezzi tecnologici e dalle forme di distribuzione con i quali le stesse idee vengono trasmesse ai cittadini?

«Come ho già detto, la cultura è stata frammentata, e oggi risentiamo della perdita di grandi progetti condivisi che accomunano una collettività. Ma, pur nel disastro della perversa prevalenza dell’io sul noi, un atteggiamento di resistenza e di speranza resiste e credo che i migliori registi di oggi lo esprimano, anche se con dolore e stupore. Non dobbiamo cedere al desiderio di autodistruzione che prende chi vede solo rovina e deserto intorno a sé».

Quali sono i passi principali che l’ANAC, come comunità per la comunità, dovrebbe fare?

«L’ANAC dovrebbe cercare di ricreare un sentimento di solidarietà professionale, una voglia comune di costruire un futuro nuovo, coraggioso, in cui tutti si possano riconoscere. Non soltanto rappresentare la voglia di buttare tutto all’aria e lasciarsi morire – tentazione molto diffusa che si può comprendere ma pericoloso da condividere – rimboccarsi le maniche e cercare di capire insieme cosa si possa fare, dire e rappresentare per salvare il mondo dall’autodistruzione. Ho conosciuto e avuto amicizie fra i grandi registi del passato, penso a Pasolini, a Ferreri, a Pontecorvo, a Fellini, ad Antonioni, a Scola, e ritengo che abbiano molto ancora da insegnarci, non solo dal punto di vista artistico, ma nel senso di comunità che avevano, e della solidarietà che li univa quando si trattava di difendere i diritti del cinema di fronte alla cecità della politica».

 

MIMMO CALOPRESTI

«Perché entrare nell’ANAC ora?»

«Questo è un momento di grande trasformazione, eppure si ha un comune senso di perdita di punti fermi, anche nel cinema. Tra le piattaforme che imperversano, le sale chiuse, i set blindati, il Covid ovunque, unirsi in una realtà che fa parte dell’Italia e dei suoi autori di cinema sin dal Neorealismo, si rivela una sicurezza. Ho sposato un principio sul quale l’ANAC si sta battendo molto, in questo periodo: vedere un film al cinema, o vederlo su una piattaforma non è la stessa cosa. L’ANAC sta tentando di salvare le sale, assieme agli autori. Ma questo non significa rinnegare le piattaforme, che sono una realtà ormai consolidata. Mi sembra che, mai come in questo momento, sia necessario ribadire che il cinema esiste e che, anzi, tra le infinite proposte delle stesse piattaforme, il cinema torna al centro del mondo. Il vecchio e il nuovo: adeguarsi al nuovo mercato, pur difendendo l’identità degli autori. Non solo fare un film e farlo vedere, in un’operazione comune e complessa che si occupi di tutta la filiera del cinema, ma cercare di diffonderlo e condividerlo con il maggior numero di persone, per confronti, critiche, discussioni comuni, sempre dì più diffuse, anche grazie e attraverso la rete, che ci permette di incontrarci contemporaneamente, in uno stesso luogo, a centinaia di chilometri gli uni dagli altri, alle volte».

Cosa cerca, come autore, dentro l’ANAC?

«Il concetto di autore è largo, io sono alla ricerca di alleanze: giornalisti, scrittori, registi, per il cinema e per la cultura come centro e non come periferia, a prescindere dall’appartenenza specifica. Mi interessa molto questa fase nuova dell’ANAC perché è post ideologica. Nel senso che restano fermi i caposaldi della cultura autoriale italiana, ma ci si apre anche ad autori nuovi o inaspettati, in questa associazione. Pupi Avati, per esempio, è sempre stato considerato un individualista assoluto del cinema, e in effetti forse lo è, ma non ho mai visto tanto coinvolgimento da parte sua come in questo momento dentro l’ANAC: è molto combattivo per dare un futuro saldo al cinema. Il cinema, bisogna ricordarlo sempre, non è una forma ideologica, ma una forma di cultura, che appartiene a tutti. Attraverso il cinema, insomma, la cultura torna a essere protagonista per la collettività e per ciascuno di noi»

“Aspromonte” di Mimmo Calopresti (2019)

Quali sono le iniziative dell’ANAC in questo momento?

«Proprio in questi giorni, stiamo portando avanti la madre delle nostre battaglie per la difesa delle sale, su due fonti. Innanzi tutto, Pupi Avati, ancora una volta, ha incoraggiato i soci a intraprendere una forte pressione politica sul Ministro della Cultura Franceschini, affinché si faccia un attento e rapido piano di riapertura delle sale.

Parallelamente, ci stiamo battendo contro la chiusura delle sale cinematografiche, in questo dramma di privazioni generali dovute al virus. Mi riferisco a sale come quella grandiosa, che ha cresciuto generazioni di cinefili e cineasti: il cinema Azzurro Scipioni non deve morire. Proprio in questi giorni, noi autori dell’ANAC abbiamo chiesto ufficialmente al MIBACT e al Comune di Roma di intervenire affinché il cinema fondato da Silvano Agosti 40 anni fa, resti aperto. E, con quella sala, non deve morirne nessun’altra. Invece, lo sappiamo, succederà. Ma noi, tutti, dobbiamo opporci».

Pensa ci sia modo, attraverso l’ANAC, di portare avanti un dialogo, una collaborazione comune con le cinematografie internazionali?

«Ovviamente: la possibilità di confrontarsi anche fuori dall’Italia è al centro delle nostre necessità e dei nostri interessi. Ci sono molti temi da affrontare con il resto d’Europa, del mondo: la difesa dell’autorialità, le leggi nazionali e quelle comuni per il futuro del cinema, per rimettere il cinema al centro della politica. La piattaforma ANAC, la scuola di sceneggiatura intestata a Leo Benvenuti, il confronto con gli autori del cinema indipendente francese: sono tutte politiche di apertura, di scambio, di dialogo che ritengo indispensabili per la creatività di ciascun autore».

Da che cosa nasce l’esigenza di ricompattare l’ANAC, dopo anni di disgregazione?

«L’ANAC si è disgregata come molte realtà, negli anni scorsi, perché ognuno ha tentato di salvarsi da solo, rispetto ai propri referenti e produttori. Non illudiamoci che un autore di cinema rinneghi il proprio nome e la propria specificità. La crisi economica, dal 2008 in poi, quindi molto precedente al virus, e un degrado dovuto a politiche divulgative che hanno abbassato il livello culturale generale, un sempre maggiore deteriorarsi del senso della Politica come gestione pubblica per il bene di tutti e molti altri fattori. L’idea di battersi, mettersi davvero insieme, fa nascere la possibilità di rivendicare, difendere e creare doveri e diritti, ma anche nuove opportunità. Soprattutto in questo anno dove la pandemia ha ricreato un senso di vita, proprio perché l’ha messa in pericolo. Forse, lo spero, l’unione può aiutare a cercare soluzioni per noi stessi e per tutti quelli che lavorano con noi. Il cinema è un’arte complessa. Sono centinaia le famiglie di chi lavora nel cinema che, in questo anno, sono in gravissima difficoltà economica. L’ANAC si occuperà anche di loro perché, senza i professionisti del cinema, l’autore cinematografico non è nessuno».

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