Fu solo mafia? Questa domanda, antica, è riemersa nella lunga trasmissione di Rai1, ricca di ricordi e luoghi importanti, dedicata alle stragi mafiose di Capaci e di via D’Amelio. Il procuratore della Repubblica di Caltanissetta, in una recente intervista al Corriere della Sera, ha sottolineato che nelle indagini ogni pista è stata seguita e tuttavia prove idonee a promuovere l’azione penale verso i cosiddetti mandanti esterni non se ne sono riscontrate. Non c’è motivo di dubitarne, allo stato, ma la domanda resta aperta e la verità, del resto, non è tutta e necessariamente giudiziaria, pur se dalle indagini e dai processi possono trarsi elementi utili e che conviene ricordare.
La scomparsa della “agenda rossa” di Paolo Borselllino è divenuta il simbolo di una verità incompiuta e il processo di revisione della condanna di undici mafiosi innocenti, che si è aperto a Catania, dovrebbe spiegare da chi e perché è stata organizzata un’accurata opera di depistaggio dopo la strage di via D’Amelio. Ma anche l’uccisione di Giovanni Falcone, certamente voluta dai capi di Cosa Nostra, lascia intravedere una convergenza di personaggi e interessi estranei alla mafia di Totò Riina e più vicini, forse, a quella di Bernardo Provenzano. Un noto esperto di esplosivi, nel corso del processo denominato “Capaci bis” ha spiegato come non potesse essere azionato con tanta precisione l’innesco micidiale sull’autostrada, senza una presenza e una strumentazione di alta tecnologia. Nel primo processo un consulente informatico aveva riferito che il computer di Falcone, nel suo Ufficio al ministero della Giustizia, era stato manomesso e alcuni file cancellati prima che giungessero sul posto la polizia e la Procura della Repubblica. Del resto, Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, ha raccontato che Salvo Lima aveva espresso la preoccupazione che Falcone, a Roma, “si mettesse l’Italia nelle mani”. Una preoccupazione politica, dunque, mentre una di natura finanziaria, sempre secondo le dichiarazioni di Siino, l’aveva manifestata Nino Buscemi il capomafia di Passo di Rigano che nel famoso “tavolino” trattava con gli imprenditori del Nord gli appalti siciliani: Buscemi si era molto adirato quando aveva sentito dire a Giovanni Falcone che la mafia era entrata alla Borsa di Milano. Perciò, nel rivedere, ancora una volta, nel servizio di Rai1 il mio battibecco con Falcone, in una famosa trasmissione condotta da Santoro e Costanzo, ho sentito rafforzata la mia contrarietà alla sua decisione di trasferirsi al ministero della Giustizia, che consideravo ambiente inadatto se non infido per svolgere un’azione di contrasto al sistema di potere economico politico e criminale dominante all’epoca delle stragi e capace di riprodursi in ambienti e contesti diversi, come dimostra oggi Mafia Capitale. Un errore grave fu, piuttosto, la bocciatura da parte della maggioranza del Csm di Falcone quale Consigliere Istruttore a Palermo.
Paolo Borsellino, che sedeva accanto a me, nella Biblioteca comunale di Palermo (segno evidente, detto per inciso, che non aveva colto alcuna ostilità nella mia presa di posizione nei confronti del suo collega, come pure qualcuno tenta di suggerire tuttora ignorando peraltro che in un rapporto di amicizia e solidarietà si può non essere d’accordo su alcune scelte) rivelò pubblicamente che Giovanni Falcone sarebbe tornato a fare il magistrato. Un ritorno, anzi un rientro noto a pochi e all’interno del Palazzo, che preoccupò non soltanto i vertici mafiosi, quanto e soprattutto i protagonisti del sistema politico-affaristico in pieno sviluppo a quel tempo. E Borsellino aggiunse nella stessa serata che egli aveva chiesto di essere un testimone nelle indagini sulla strage di Capaci. Cosa ciò significasse, per la scoperta della verità tutta intera, fu immediatamente intuito dalla folla che circondò per l’ultima volta in un abbraccio appassionato il “suo” giudice. Non solo mafia, appunto.
di Alfredo Galasso | da “Il Fatto Quotidiano 3 giugno 2017