Anoressia e bulimia: “Il mio inverno”

La web serie “Ombre sul web” ha suggerito a Cinzia Rizzetti un ricordo che è testimonianza

Vomito, di nuovo sono stata stupida. Un tacchino, sono un tacchino che si incozza. Sono il solito disastro, non sono abbastanza, o sono troppo. Lo specchio mi restituisce un’immagine goffa, deforme. La devo smettere. Il cibo non è mio amico. È un mostro che mi divora dal di dentro. I pensieri diventano ossessivi come i morsi allo stomaco.

Provo a distrarmi, ma ancora quel pensiero mi tormenta, non devo dargli peso. Già, il peso! Scende ma non ci credo, lei mente. Solo lo specchio dice la verità. È la verità è che sono grassa anche se lei segna 43. Gli altri non vedono, io si. Mi dicono che quelle che sporgono sono le mie ossa, ma dove? Vogliono rinchiudermi, dicono che non sono obbiettiva, che sono io a deformare la realtà. La realtà è che anche quest’anno l’influenza mi ha colpito, ho mal di gola, non mi reggo in piedi e sono stanca. Ho freddo, ho le mani ghiacciate. Quest’anno l’inverno non vuol andare via anche se il grano è già alto.

Ora dormo un po’ se i rumori allo stomaco si decidono a tacere.

Disturbi alimentari online

Camorra al Nord: cronista veneta nel mirino

Di Nicola Chiarini

L’intimidazione e le minacce ai cronisti sono parte del metodo mafioso, ovunque il cancro della criminalità organizzata si annidi. Non fa eccezione il Veneto Orientale dove, in questi giorni, è stata condotta una operazione contro la camorra con decine di arresti. Nella copiosa mole di materiali raccolti dagli investigatori è emerso che nel mirino dei clan era finita Monica Andolfatto, giornalista del Gazzettino e segretaria del Sindacato giornalisti del Veneto (Sgv), per il suo puntuale lavoro di cronista di nera. A quanto emerge, i malavitosi avevano valutato nel 2008 di sparare alcuni colpi di pistola a titolo intimidatorio contro la giornalista, dopo alcuni articoli su episodi criminosi avvenuti nel comprensorio di San Donà di Piave. L’azione non andò in porto perché l’incaricato fu arrestato prima di poterla compiere. E ancora, un paio d’anni dopo, la rinnovata attenzione della cronista provocò ancora reazioni di rabbia nei delinquenti, a conferma di quanto l’informazione, illuminando le zone d’ombra, possa essere un concreto ostacolo ai piani dei professionisti del malaffare. Dentro e fuori la categoria sono tante le attestazioni di stima e solidarietà nei confronti di Andolfatto, a partire dai vertici della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), il sindacato dei giornalisti in Italia. “Ringraziamo le forze dell’ordine e la magistratura per il grande lavoro svolto sul territorio che ha consentito di assicurare alla giustizia chi, per non essere disturbato nella sua attività criminale, voleva mettere a tacere la collega” rilevano Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, rispettivamente segretario generale e presidente della Fnsi, che aggiungono: “Chiediamo alle autorità di garantire a lei e a tutti i cronisti della regione di poter svolgere in sicurezza il loro lavoro. A Monica Andolfatto diciamo che non abbiamo alcun dubbio che continuerà a onorare con la solita determinazione e passione il suo dovere di informare i cittadini”.

Fake-news e democrazia, la strategia della disinformazione

Da un paio di anni a questa parte, nel dibattito politico, mediatico e scientifico a livello mondiale, è divenuto virale il neologismo anglosassone “fake news” come indice di un fenomeno che a causa delle caratteristiche della rete, sarebbe latore di una inedita quanto fatale minaccia per la tenuta dei regimi democratici: in sostanza, la disinformazione on-line privando il cittadino di una informazione completa, parziale e oggettiva minerebbe la sua capacità deliberativa in campo politico e dunque la genuinità delle elezioni. Di qui, la richiesta di un intervento dei pubblici poteri volto a reprimere il fenomeno.

La gran parte dei giuristi che si occupa del diritto dell’informazione ha avuto buon gioco nel rilevare il carattere ideologico di questa posizione che è emersa a partire dal 2016 – dopo dieci anni di attività dei social network – a ridosso della elezione di Trump, della Brexit e di altri esiti elettorali avversati quanto imprevisti dal mainstream. Dunque, dopo decenni di dibattiti sulla mancanza di pluralismo informativo, sulle omissioni e le asimmetrie del processo comunicativo, sulle cause della disinformazione nei media tradizionali (simbolicamente rappresentata da quella che è stata definita la madre di tutte le fake news, ossia le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein) si arriva alle inevitabili conseguenze: i media stanno perdendo la capacità di comprendere e di orientare gli elettori.

La reazione, però, è quella di mettere in discussione la libertà di manifestazione del pensiero su cui poggia l’intero edificio democratico. Dunque, pur essendo indirizzata alla rete, la campagna contro le fake news rappresenta forse qualcosa di più pericoloso di «una guerra tra vecchi e nuovi media – e vecchi e nuovi centri di potere – per il controllo dell’opinione pubblica».

Quel che sta cominciando ad inquietare i giornalisti, in primis quelli della carta stampata, infatti, è che per la prima volta nella storia delle democrazie contemporanee, gli attori politici propongono un intervento dei pubblici poteri per punire, censurare (direttamente o indirettamente) – o peggio ancora per certificare con organismi pubblici o privati – il falso informativo in quanto tale: non la diffamazione, la frode, il raggiro, l’aggiotaggio, la violazione della proprietà intellettuale o della fede pubblica, ma il falso in sé e per sé, riferito peraltro non al dato nudo e crudo ma addirittura alle notizie.

Qui non si tratta solo dei falsi artatamente confezionati con le nuove tecniche digitali, come la clonazione di articoli di testate giornalistiche on-line, o come i software (ro)bot in grado di agire sulla rete alla stregua di esseri umani con la creazione di account falsi a fini di propaganda occulta. Né si tratta solo delle affermazioni evidentemente prive di qualsivoglia fondamento scientifico (es. “Il Sole gira intorno alla Terra”). Anche su questo tipo di contenuti, peraltro, si potrebbe obiettare che i falsi digitali hanno le gambe corte, visto che i professionisti dell’informazione sono in grado di smascherarli (magari proprio con l’ausilio delle nuove tecnologie) senza alcun bisogno di interventi normativi. D’altro canto, non può sfuggire che l’utilizzo più o meno occulto dei mezzi di comunicazione per influire sulle vicende politiche di altri Paesi è un fenomeno antico e piuttosto diffuso nel panorama mondiale. Allo stesso modo, per le fantasie in campo medico o scientifico, ci si dovrebbe chiedere: quando l’istruzione e il buon senso non fossero più in grado di salvaguardare la capacità deliberativa dei cittadini in qualsiasi campo, innanzi alla morte della ragione, a cosa gioverebbe la potestà d’imperio, se non a restaurare anche di diritto l’evo oscuro in cui prosperò la cosmologia tolemaica? Il rogo di Giordano Bruno ci scandalizza perché il filosofo aveva ragione o perché l’autorità politica pretendeva di essere depositaria della verità assoluta, giusta o sbagliata che fosse?

Ma, come si diceva, qui non è solo questione di account falsi, di articoli clonati o di fantasie spacciate per verità. Gli interventi pensati o adottati dai pubblici poteri mirano tutti a toccare i contenuti informativi senza definire a monte né l’oggetto della falsità (i dati, gli eventi, la narrazione ragionata degli stessi?) né tantomeno il parametro per affermarla, sul presupposto che sia sempre possibile verificare sul campo la rispondenza al vero oggettivo di qualsivoglia dato o notizia. E, si badi, proprio in questa epoca, caratterizzata da uno stato permanente di guerre e terrorismo a livello globale, associato alla crisi sistemica dei media.

In questi giorni si discute nel Parlamento francese la proposta di legge sulla lotta alle false informazioni durante il periodo elettorale, che prevede sia l’introduzione di un potere di censura amministrativa sul mezzo televisivo nei confronti di contenuti riconducibili alla propaganda di Paesi stranieri, sia il sequestro giurisdizionale d’urgenza nei confronti di notizie on-line asseritamente false. La proposta è stata aspramente criticata dalla principale organizzazione rappresentativa dei giornalisti d’oltralpe. Come si legge nel comunicato stampa diramato dal SNJ (Sindacato Nazionale dei Giornalisti) il 10 marzo scorso, attribuire ad un giudice il potere di rimuovere una notizia entro 48 ore dal ricorso, significa conferirgli il potere di «decidere sulla veridicità di notizie la cui attendibilità richiede talvolta indagini di diversi mesi». Allo stesso tempo questo sistema oltre ad «indebolire la protezione delle fonti giornalistiche», metterebbe in pericolo «l’intera catena dell’informazione». In definitiva, «con il pretesto di combattere la diffusione di notizie false, questo testo minaccia la libertà di espressione e la libertà di informare».

In effetti, il sequestro sarebbe destinato ad intervenire indipendentemente da ogni dubbio relativo alla commissione di un illecito, per giunta sulla scorta di un parametro assolutamente indeterminato (perché il testo parla solo di «informazioni false in grado di influire sulla sincerità del voto»).

Ad analoghi esiti, ma con l’aggravante dell’assenza di un giudice, conduce la legge tedesca del 30 giugno 2017 alla quale si ispirava anche il disegno di legge Zanda sulle fake news che era stato presentato al Senato il 14 dicembre 2017, durante la XVII Legislatura. Qui la censura avrebbe dovuto essere esercitata per interposta persona, imponendo ai social network di rimuovere (entro sette giorni) contenuti «non manifestamente illeciti» ma fatti oggetto da parte degli utenti di un certo numero di segnalazioni a causa della asserita «falsità del loro contenuto».

In Italia, oltre al disegno Zanda, c’è da menzionare il disegno di legge Gambaro presentato anch’esso nella scorsa Legislatura e volto a rinverdire quelle fattispecie di reato che nel Codice Rocco rappresentano il legato più tipico del ventennio: con l’introduzione degli artt. 265-bis e 265-ter, il progetto si proponeva in sostanza di estendere al tempo di pace la punizione del disfattismo politico (reato attualmente previsto solo per il tempo di guerra dall’art. 265 c.p.); con l’art. 656-bis invece si sarebbe creato un altro reato di pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose (già previsto dall’art. 656 c.p.) per estenderlo al web – ad eccezione delle testate giornalistiche on line – senza peraltro inserire nel testo del nuovo articolo la condizione di punibilità (la turbativa dell’ordine pubblico) che ha preservato l’art. 656 del c.p. da una dichiarazione di incostituzionalità. Almeno fino all’ultima volta in cui il giudice delle leggi è stato interrogato sul punto (era il 1976).

Unanime il coro dei giuristi sul citato disegno di legge: violazione dei principi di determinatezza, tassatività e offensività delle fattispecie di reato, connessa alla patente violazione della libertà di manifestazione del pensiero in nome di un sinistro richiamo allo Stato Etico di matrice totalitaria, se non al suo antesignano medioevale fondato sulla negazione del diritto di eresia.

Non meno inquietudine, presso la stampa internazionale, destano gli interventi pubblici apparentemente più morbidi ma tesi comunque a delegittimare e a privare delle necessarie risorse finanziarie l’espressione di opinioni sgradite, sempre facendo leva sul carattere inevitabilmente indeterminato della nozione di falso informativo.

Ciò è reso palese dal recente scandalo suscitato dall’operato della piattaforma on-line europea EUvDisinfo, creata dall’UE per difendersi dalle campagne di propaganda attribuite al Cremlino. Nel gennaio scorso, la piattaforma ha etichettato come falsi informativi tre articoli di tre testate olandesi on-line: gli articoli riportavano le opinioni di un sociologo (apparse anche sul Guardian) che aveva vissuto in Ucraina e che descriveva il Paese come uno Stato oligarchico, senza media indipendenti, onde poi segnalare la crescita dei movimenti fascisti e l’alta considerazione di cui gode l’esercito di resistenza, accusato di aver ucciso migliaia di ebrei durante la II Guerra mondiale. I responsabili della piattaforma – che avevano agito su istanza di un’associazione denominata “Promote Ukraine” – si sono trincerati dietro un errore di traduzione, come se delegittimare apoditticamente una opinione (ossia la frase frutto dell’errore: «L’Ucraina è uno Stato fascista») etichettandola istituzionalmente come “notizia falsa”, possa rappresentare un fatto meno grave.

La questione ha scandalizzato la stampa d’oltreoceano. Emblematico l’articolo a firma di Michael Birnbaum, apparso sul Washington Post del 25 aprile scorso, dal titolo: «L’Europa vuole reprimere le notizie false. Ma ciò che per qualcuno è una notizia falsa, per qualcun’altro è dissenso democratico».

Ciò nonostante, il 26 aprile scorso la Commissione Europea ha annunciato di voler esportare il modello di EUvsDisinfo alla sua politica di contrasto della disinformazione on-line.

Innanzitutto, le piattaforme on-line saranno tenute ad adottare un codice comune di buone pratiche teso, tra le altre cose «a restringere il numero di possibili bersagli di propaganda politica e ridurre il profitto dei vettori di disinformazione». Inoltre, un gruppo di “esperti” reclutati da un centro di ricerca privato (l’International Fact Cheking Network – IFCN, ramo del Poynter Institute), qualificati alla stregua di «verificatori di fatti» agiranno su una apposita piattaforma on-line gestita dall’UE, con la pretesa di insegnare il mestiere ai giornalisti, etichettando come vere o false le informazioni circolanti on-line.

Per avere un’ulteriore riprova del funzionamento di questi sistemi, è sufficiente controllare i due siti italiani di verificatori di fatti già accreditati presso L’IFCN (Pagella Politica e Lavoce.info) all’interno dei quali attori certamente non estranei al dibattito politico etichettano non solo dichiarazioni relative a dati verificabili ma anche analisi di carattere generale aventi ad oggetto lo stato della società e dell’economia italiana. Esempio tipico: L’Italia si sta impoverendo negli ultimi anni? Bufala! Perché esiste una statistica sulla “povertà assoluta” nel biennio tal dei tali che la considera stabile.

Come dice Margaret Sullivan sul Washington Post (15 novembre del 2017) è l’espressione Fake News ad essere fuorviante e pericolosa, e sarebbe ora di metterla in soffitta.

Così mentre la stampa statunitense fa retro marcia, sia pur tardivamente (cioè, da quando il Presidente Trump ha utilizzato l’ideologia delle fake news a suo uso e consumo), da quest’altra parte dell’Atlantico l’UE pensa di imporre a tutte le piattaforme on-line un procedimento direttamente ispirato ai costosi sistemi di assicurazione della qualità delle notizie che Google e Facebook hanno già spontaneamente adottato nel 2017 per consolidare il sostanziale duopolio nel mercato dei servizi on-line, e quindi il dominio nella selezione delle notizie accessibili e sponsorizzabili sul (clear) web. Il sistema è basato sui reclami del consumatore-utente (ossia del soggetto paternalisticamente indicato come vittima predestinata delle fake news) e soprattutto sul referaggio di “esperti” (Facebook si è affidato proprio all’IFCN) che per ora sfocia nella qualificazione di una notizia come “contestata”. La conseguenza di norma non è la rimozione, anche se il 18 aprile scorso Facebook ha bloccato alcuni siti filippini ritenuti latori di fake news. Tuttavia, per la notizia contestata scatta il divieto di sponsorizzazione.

Ed è questa, ancor più dei sequestri, delle censure e delle repressioni penali, l’arma in assoluto più potente per far sparire le notizie urticanti o sgradite che, per definizione, sono quelle più “contestate”.

In effetti, stando alle ricerche più recenti sull’informazione (Julia Cagé, Salvare i media, Bompiani 2016), negli ultimi anni la crisi dei media e della loro credibilità si è acuita a causa della crescita esponenziale dell’influenza del denaro sul lavoro di chi produce le notizie. Tale crescita è dovuta sia all’attuale assetto proprietario dei media (raggruppati in grandi gruppi industriali all’interno dei quali l’informazione non costituisce la prevalente ragione sociale), sia al peso specifico ricoperto nel finanziamento delle testate dagli introiti pubblicitari provenienti da gruppi industriali altrettanto grandi e potenti. Il risultato è la diminuzione del numero delle persone che producono le notizie, rispetto a chi si limita a ri-produrle, e soprattutto, la precarizzazione delle loro condizioni di lavoro – sul piano contrattuale e retributivo – con evidenti ricadute sulla possibilità di esercitare sul campo la professione e anche di resistere alle tradizionali pressioni cui è soggetta l’attività del giornalista.

È solo ponendo mano a questo assetto – secondo la Cajé – che si potrà consentire ai giornalisti di produrre una «informazione accurata, diversa, illuminata», necessaria al libero esercizio dei diritti politici e in grado di riconquistare la fiducia dei cittadini, unico vero strumento di lotta contro le fake news.

Eva Lehner

Ostia, un caso su cui riflettere

Ostia è stata nuovamente teatro di una manifestazione contro le mafie e lo squadrismo, promotori Federazione Nazionale della Stampa e Libera. È la terza nel giro di una settimana dopo il pestaggio dell’ inviato di Nemo (Raidue) Daniele Piervincenzi a opera di Roberto Spada, dell’omonimo clan, poi finito in carcere. Sullo sfondo il ballottaggio di domenica che vedrà opposti la candidata dei M5S Giuliana Di Pillo e quella di Fratelli d’Italia Monica Picca, voto che avverrà in una Ostia blindata con addirittura l’impiego dell’Esercito.

Tira una brutta aria in questo Paese: i segnali di questa estate, quando l’ondata xenofoba invase i social e non soltanto, si sono estesi e sedimentati. L’aggressione di Ostia, per il contesto in cui è avvenuta, non è soltanto una minaccia alla libertà d’ informazione, è ancor più la dimostrazione evidente di come interi territori siano ormai nel controllo della criminalità organizzata con una netta diversificazione fra Nord e Centro-Sud. Nel primo caso, vedi processo Aemilia si stanno delineando con chiarezza le contiguità e le storture del sistema economico-finanziario ormai largamente inquinato dall’iniziativa mafiosa. Nel secondo, invece, siamo all’occupazione militare di larghe zone dove la manovalanza criminale sfrutta l’assenza dello Stato e impone un pesante tributo ai cittadini già sfibrati dalla crisi decennale.

Anche volendo attribuire a una mancanza di coordinamento e di prospettiva unitaria il fatto che non si sia riusciti a organizzare un’unica grande manifestazione contro le mafie, resta il fatto che questo procedere a ranghi sparsi e divisi certifica una mancanza di analisi comune della situazione e un indebolimento del fronte democratico.
Mafie, neofascismo squadrista e precarizzazione delle condizioni di vita sono in realtà facce dello stesso processo involutivo della democrazia in Italia. Nell’ultimo decennio è avvenuto un salto qualitativo che i radar dell’informazione, con le dovute eccezioni ovviamente, non hanno registrato o non hanno decifrato nell’esatta portata. Se da una parte si sono rinsaldati vincoli sempre esistiti ma in forma più labile, fra capitalismo selvaggio e mafie (che in comune hanno l’rricchimento a ogni costo), dall’altro la precarizzazione dei lavoratori (anche quelli dell’informazione) ha sfibrato i corpi intermedi privando i cittadini di rappresentanza diffusa e ha compresso ancor più un sistema di diritti che il ventennio precedente aveva già provveduto a intaccare abbondantemente.

Questo vale in particolare per il mondo dei media dove la crisi, che sarebbe lungo analizzare, ha espulso dalle redazioni migliaia di professionisti, sostituendoli con altrettanti ragazzi sottopagati, mal formati e spesso mandati allo sbaraglio. Se sommate queste condizioni di lavoro alla scarsa, per usare un eufemismo, cultura dell’informazione da sempre evidente in Italia e alla più generale caduta del senso di solidarietà sociale e alla scomparsa delle identità collettive, capirete come il mix sia un viatico a soluzioni autoritarie.

Le mafie, da sempre attente a inserirsi nei processi degenerativi per lucrare, hanno così rafforzato la loro presenza su due versanti: l’accumulazione capitalista, legale o meno in questo caso fa poca differenza, e il controllo militare dei territori. Ma non basta, il risorgente neofascismo, storicamente intersecatosi con i fenomeni criminali (vedi per citare un caso di scuola la Banda della Magliana) veleggia con in poppa il vento del populismo destrorso che si incarica di indicare bersagli esterni alle dinamiche economiche e di potere (immigrati, minoranze ecc.) costruendo una narrazione autoritaria che sorregge e difende il perimetro del neoliberismo imperante. A fronte di questo lo schieramento opposto manca di una visione moderna e unitaria dei fenomeni, quindi di una strategia che coniughi un’opposizione sociale con i processi di affrancamento e liberazione dal dominio della criminalità. Insomma, siamo molto vicini, o forse siamo già immersi, in un’altra notte della Repubblica.

Malta: una bomba uccide la blogger anticorruzione

BIDNIJA – La giornalista e blogger Daphne Caruana Galizia è stata uccisa a Bidnija, nell’isola di Malta, da una bomba che ha fatto saltare in aria la sua auto, una Peugeot 108, mentre lei era a bordo. È morta sul colpo. Quindici giorni fa aveva presentato denuncia alla polizia dopo aver ricevuto minacce di morte.La reporter si era appena messa alla guida quando la deflagrazione è avvenuta, in una strada non molto distante da casa sua. Secondo fonti citate dal Times of Malta e dall’emittente TVM, uno dei figli avrebbe udito l’esplosione e sarebbe corso fuori casa per vedere cosa era accaduto, dando l’allarme. Sulla scena sono presenti la polizia scientifica, i vigili del fuoco ed esperti di esplosivi, oltre a numerosi investigatori della polizia maltese. La giornalista lascia il marito e tre figli di cui uno, Matthew, membro del Consorzio Internazionale di Giornalismo Investigativo premiato col Pulitzer per il grande lavoro sui Panama Papers, che aveva visto la madre Daphne impegnata sul filone maltese. La famiglia ha chiesto la sostituzione di Consuelo Scerri Herrera, la magistrata incaricata delle indagini sulla morte di Caruana Galizia, perché “titolare di procedimenti giudiziari intentati contro la giornalista a causa dei suoi articoli”.Galizia aveva lavorato ai MaltaFiles, l’inchiesta internazionale che indicava Malta come “lo Stato nel Mediterraneo che fa da base pirata per l’evasione fiscale nell’Unione europea”. La testata Politico.eu l’aveva inserita nella lista delle “28 personalità che stanno agitando l’Europa”.Il primo ministro di Malta, Joseph Muscat, ha detto che si è trattato di un “barbaro attacco” e che “non riposerò fino a che giustizia non sia stata fatta. Tutti sanno che Caruana Galizia mi ha criticato fortemente sia a livello politico che personale. Ma nessuna rivalità – ha concluso il premier maltese – giustifica una morte del genere”.Caruana Galizia stava indagando su scandali di corruzione che coinvolgerebbero, tra gli altri, la moglie di Muscat, che sarebbe implicata nel caso dei Panama Paper. Il premier laburista ha sempre respinto le accuse a carico suo e dei propri familiari. A rafforzare le tesi del lavoro investigativo di Galizia, però, un video girato il 20 aprile scorso.Aveva iniziato la propria carriera nel 1987 per l’edizione domenicale del Times of Malta, per poi diventare condirettore del Malta Independent, nel quale era successivamente passata al ruolo di editorialista. Aveva anche diretto la rivista Taste&Flair. È stato però il suo blog Running Commentary a proiettarla al centro dell’attenzione del pubblico. Il suo ultimo post, pubblicato alle 14.35, pochi minuti prima di morire, riguarda la testimonianza in tribunale di Simon Busuttil, leader dell’opposizione, nel processo che vede coinvolto Keith Schembri, capo dello staff di Muscat. Schembri, accusato di corruzione, è stato tra i primi politici a essere travolto dallo scandalo dei Panama Papers.

25 anni fa l’assassinio del generale Dalla Chiesa

L’intervista che leggete è stata pubblicata sul Corriere del 5 settembre 1982. Tutti gli articoli apparsi sul Corriere, negli oltre 140 anni della sua storia, sono disponibili nell’Archivio digitalizzato: lo trovate qui.

«Carlo Alberto dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato». Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo l’assassinio del generale dei carabinieri. Sciascia non aveva stabili frequentazioni con il militare, ma ne era rimasto affascinato tanto da trasformarlo nel capitano Bellodi, protagonista de «Il giorno della civetta».
L’incontro avviene nella casa di campagna dello scrittore a Racalmuto, poche migliaia di anime al centro del triangolo della miseria in Sicilia. Sciascia vi trascorre le vacanze in compagnia della moglie, n resto del mondo appare lontano. La notizia dell’assassinio del prefetto di Palermo Sciascia l’ha appresa solo ieri mattina, dodici ore dopo l’agguato.

«Questo assassinio — dice — ha un solo significato ed è l’eliminazione di una singola persona che era diventata un simbolo. Le istituzioni sono tarlate, non funzionano più, si reggono solo sulla abnegazione di pochi uomini coraggiosi. A partire dall’assassinio del vice questore Boris Giuliano, la mafia ha deciso di eliminare questi uomini simbolo. Arrivati a dalla Chiesa, però, mi domando, se non ci sia della follia in chi ordina questi delitti: che cosa vogliono? Qual è il loro obiettivo? Pretendono forse il governo dello Stato? In verità non riesco a capire. Vogliono forse Imporre un ordine mafioso che si sovrapponga a quello dello Stato? Ma questo è impossibile perché livello dei delitti è talmente alto da suscitare una fortissima reazione».

«Io credo – continua Sciascia — che nessuna organizzazione eversiva possa gareggiare con lo Stato in fatto di violenza, anche quando lo Stato appare inefficiente. Anzi, la sua inefficienza, è direttamente proporzionale alla mancanza dt funzionalità. In queste condizioni sfidarlo mi sembra un atto di napoleonismo folle. Ma tutto ciò mi preoccupa perché uno Stato inesistente è sempre capace di approvare una legge sui pentiti e di scatenare una furibonda repressione poliziesca».
«Secondo me la mafia si combatte utilizzando onestà, coraggio e intelligenza e le indagini fiscali illustrate due giorni fa dal ministro Formica mi sembrano un buon inizio. Con questi strumenti la mafia si può debellare.

«Per capire tale affermazione bisogna rifarsi alla tesi classica che voleva la mafia inserita nel vuoto dello Stato, mentre in realtà essa vive nel pieno dello Stato. Credo che dall’istituzione della commissione antimafia in poi, l’organizzazione abbia cominciato a sentirsi esclusa dal pieno dello Stato e ora ha assunto questa forma che potremmo definire eversiva. Ma in effetti appare come un animale ferito che dà colpi di coda».

«Dalla Chiesa, forse — aggiunge lo scrittore —, non aveva intuito tale trasformazione e i pericoli che ne derivavano. Anch’io, peraltro, non credevo che si arrivasse a colpire tanto in alto. Ma in effetti noi tutti conosciamo bene solamente la vecchia mafia terriera. Per il resto tiriamo ad indovinare. Possiamo dire in ogni caso che la mafia è una forma di terrorismo perché vuole terrorizzare la gente. Ma i fini sono sostanzialmente diversi. Di comune c’è una sola cosa e cioè l’attentato alle nostre libertà».

«Ma forse Dalla Chiesa — conclude Sciascia — non aveva piena coscienza di questo fenomeno. Mi meraviglio infatti della maniera con cui è stato ucciso. Quando un uomo arriva alle sue posizioni ha il dovere di farsi proteggere e di farsi scortare bene. Le manifestazioni di coraggio personale possono diventare forme di imprudenza pericolosa. Ciò nonostante mi sgomenta la incapacità della nostra polizia di prevenire. Infatti un attentato ad un uomo come Dalla Chiesa non si improvvisa in quattro e quattr’otto, ma nessuno ne aveva avuto sentore».

Borsellino: il mistero dell’ultima intervista

“Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia”. Parola di Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 insieme al collega Jean Pierre Moscardo intervista il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. Il contenuto di quell’incontro è clamoroso e ampiamente noto: a 48 ore dall’omicidio di Giovanni Falcone e a meno di due mesi dal suo, Borsellino parla per la prima volta dei rapporti tra Vittorio ManganoMarcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Altrettanto conosciuto è il difficile percorso che porterà quell’intervista prima ad essere pubblicata in forma scritta dall’Espresso nella primavera del 1994 (al settimanale era stata fornita una sintesi video a garanzia dell’autenticità) e poi alla messa in onda – sempre in forma breve – su Rainews 24 nel 2000 tra le polemiche e le tensioni della televisione di Stato. Per la pubblicazione integrale, invece, bisognerà attendere il 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in dvd. Quello che invece è meno conosciuto è l’origine di quell’intervista, i motivi per cui venne commissionata e quindi mai mandata in onda. A venticinque anni dalla strage di via d’Amelio, Calvi ha accettato di parlare con ilfattoquotidiano.it, ripercorrendo i giorni precedenti e successivi a quell’incontro con Borsellino, che doveva fare parte di un film inchiesta da lui oggi ha definito come “la mia maledizione“.

Calvi, perché quel film è la sua maledizione?
Perché me lo porto dietro praticamente da sempre e per un motivo o per un altro non è mai uscito integralmente. Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia.

Come nasce l’idea d’intervistare Borsellino?
Conoscevo da anni Paolo Borsellino, lo seguivo dagli anni ’80. Me lo aveva presentato Rocco Chinnici anche prima che Borsellino facesse parte del pool antimafia. Tutti correvano dietro a Giovanni Falcone, a me è sembrata una buona idea correre dietro a Borsellino. Avevamo un ottimo rapporto. Non so se di amicizia, ma sicuramente un ottimo rapporto. Così visto che dovevamo fare un film su Silvio Berlusconi e la mafia ho pensato di andarlo a intervistare.

Quel film nasce già come un’inchiesta su Berlusconi e la mafia?
Assolutamente sì. Io avevo avuto notizia delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri. Avevamo sentito tutti i protagonisti del blitz di San Valentino a Milano, poi siamo andati in Sicilia  per ricostruire i percorsi di Marcello e Alberto Mangano.

E perché si rivolge a Borsellino?
Io non avevo idea che lui si fosse occupato di Mangano per una storia di estorsioni. Sono andato a trovarlo in procura qualche giorno prima dell’intervista e mi dice: Sì, su Mangano ho delle cose da dire. Io ero andato spesso in procura in passato ma ricordo che all’epoca ho trovato l’ambiente un po’ cupo, pesante. Non si sapeva ancora ma col senno di poi era il momento in cui stavano cambiando le cose.

A quel punto lei propone un’intervista a Borsellino su Mangano.
E lui accetta di farla davanti alle telecamere. Però mi dà appuntamento a casa sua. Un dettaglio che già al momento mi colpì perché di interviste a casa sua non ne avevo mai fatte.

Perché non si fece intervistare in procura?
Onestamente, non lo so. Perché non voleva essere sentito, ascoltato o visto in procura? Questo non lo so. D’altra parte era un’intervista video.

La novità di quell’intervista è il collegamento Mangano-Dell’Utri-Berlusconi.
Due cose mi hanno colpito di quel colloquio. La prima è che Borsellino parla di inchieste in corso a Palermo su Dell’Utri, è quella era per me era una novità. C’erano procedimenti su Mangano ma a Milano e si trattava sempre del blitz di San Valentino, che credo fosse già finito in Cassazione quindi non lo definirei in corso. Non ho mai capito cosa fossero quelle inchieste in corso.

Non si è veramente mai capito neanche dopo: la prima indagine ufficiale su Dell’Utri da parte della procura di Palermo è del 1994. 
Quando già Berlusconi era sceso in politica. Ma lì eravamo prima della stagione di Forza Italia, anche se era il momento in cui la mafia aveva già mollato la Dc.

Quale è la seconda cosa che l’ha colpita dell’intervista?
Il tono usato da Borsellino, lui parla in un modo molto forte e diretto: ha quelle carte davanti che sta guardando e le cita in continuazione. Poi avremmo capito che quello era il fascicolo processuale delle inchieste su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, cioè tutte le volte che erano stati citati in rapporti di polizia. Lui riguarda questo elenco e alla fine me lo dà davanti alla telecamera, dicendo: basta che non dice che gliel’ho dato io. Francamente mi ha stupito: queste cose non le faceva mai.

Era come se volesse parlare di quell’argomento a tutti i costi, cioè di Berlusconi, Mangano e Dell’Utri?
Lui voleva parlare, questo è chiaro. Voleva parlare e voleva parlare di questi soggetti. Perché in quella fase non sarei capace di dirlo. A Palermo era uno strano momento: di quieta inquietudine direi. Era già morto Salvo Lima, che aveva dato la disponibilità ad essere intervistato da noi e si sapeva che qualcosa si stava muovendo. Ma la città in quel momento era tranquilla anche se lui era inquieto.

Ma dopo l’omicidio Borsellino, come mai l’intervista non è stata mandata in onda? Era un documento straordinario da diffondere dopo la strage di via d’Amelio.
Perché bisogna capire come nasce l’intervista a Borsellino.

Come nasce?
Io lavoravo per una casa di produzione indipendente e c’era un interesse di Canal Plus per Berlusconi e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq e la voleva trasformare in una tv criptata, entrando in concorrenza diretta con Canal Plus.

Quindi c’era un interesse affaristico di Canal Plus. Sono loro a commissionarvi  l’inchiesta o l’avete proposta voi?
No, noi abbiamo proposto a Canal Plus delle storie sulla mafia. Le nostre fonti ci avevano segnalato che c’erano storie su Berlusconi e la mafia e Canal Plus ci ha detto: questa ci interessa. Il problema è che quando il film era finito, per Canal Plus non era più una storia utile: La Cinq era fallita, Berlusconi non investiva in Francia e loro non volevano più sentirne parlare.

Addirittura non volevano sentirne parlare? Ma quello però era comunque uno scoop. Non solo per i contenuti ma perché è probabilmente una delle ultime interviste a Borsellino prima di morire: che senso ha non volerne sentire più parlare?
Non lo so, ma Canal Plus era ed è una televisione che si occupa soprattutto di cinema, di sport e soltanto in parte di documentari. E documentari non vuol dire attualità. E poi Canal Plus non sapeva neanche che dentro il nostro girato c’era tutta quella storia di Borsellino. Magari avevano saputo dell’omicidio, però per loro era un’operazione che non interessava più.

Come mai non ha proposto a qualche altra emittente di mandare in onda quell’intervista?
Perché sono subito partito per girare una lunga serie sui servizi segreti nella seconda Guerra Mondiale. E quindi ho messo da parte tutto il capitolo sulla mafia. E poi onestamente non mi andava di pubblicare quest’intervista con la chiave: ecco perché Borsellino è stato ucciso. Non mi piaceva.

Hai mai pensato che uno dei motivi per cui Borsellino muore è proprio perché sapeva quelle cose su Mangano e Dell’Utri?
Cioè per l’intervista?

Non per l’intervista, ma per quello che dice nell’intervista.
Ma quello che dice nell’intervista non è stato pubblicato e quindi non era pubblico. Magari qualcuno l’ha saputo ma io penso proprio di no. Io penso che l’omicidio fosse stato già deciso quando uccisero Falcone. Poi da quello che ho sentito, ma non ho seguito direttamente, so che Borsellino era stato ucciso perché si era messo in mezzo alla Trattativa.

Recentemente, però, Giuseppe Graviano – intercettato in carcere – parla di una “cortesia” fatta “al Berlusca” che voleva scendere già in politica nel 1992. Registrazioni che alcuni inquirenti collegano alla strage Borsellino. 
L’ipotesi che lega l’intervista all’omicidio direi che non è credibile. Anche perché ho letto che Graviano sapeva di essere intercettato. Le connessioni tra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano erano già saltate fuori. La novità che portava Borsellino era una novità importante ma come documentaristica perché dà un’altra luce alla faccia di Dell’Utri e Mangano ma non è secondo me una luce fondamentale.

In ogni caso, però, quell’intervista, non venne comunque diffusa per due anni e l’intero film non è mai uscito: non è strano?
Sì e per questo che io considero questa storia la mia storia maledetta. L’intervista, come è noto è stata pubblicata dall’Espresso nel 1994 e poi da voi in forma integrale, mentre il film ho praticamente finito di montarlo. Negli anni successivi l’ho proposto a vari network ai quali invece non interessava. Ma se non è mai uscito è stato per una serie di circostanze che non reputo strane o inquietanti o meglio non spinte dall’alto. Varie volte ho sentito il fiato sul collo in certe storie che seguivo, ma devo dire che non è questo il caso.

di Giuseppe Pipitone “Il Fatto Quotidiano 19 luglio 2017

Le mafie stanno bene, la Ndrangheta meglio

Nonostante arresti e condanne, le mafie (purtroppo) stanno benissimo. La ‘ndrangheta soprattutto. È questo il quadro – amaro – tracciato dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) presentata oggi al Senato dal Procuratore nazionale Franco Roberti e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi nella relazione con cui annualmente fa il punto sulle attività svolte dalle diverse Dda durante l’anno. Il 2016 – emerge dal documento – è stato un anno di successi, investigativi e processuali, ma le mafie storiche non sono in crisi. Al massimo, stanno cambiando pelle e strategia per meglio adattarsi ai vuoti provocati da arresti e condanne e alle modificazioni del mercato. Fatta eccezione per Napoli città, dove il periodo di fibrillazione dovuto ad arresti e condanne di capi storici ha dato la stura a un aumento della violenza sanguinaria dei clan, oggi guidati da giovanissimi e incontrollabili leader, le mafie sembrano aver optato per una strategia di controllo del territorio diversa ma altrettanto efficace.

MAFIE COME AUTORITA’ PUBBLICHE
Le mafie stesse rischiano di diventare ‘autorità pubblica’ in grado di governare processi e sorti dell’economia. “L’uso stabile e continuo del metodo corruttivo-collusivo da parte delle associazioni mafiose determina di fatto l’acquisizione (ma forse sarebbe meglio dire, l’acquisto) in capo alle mafie stesse, dei poteri dell’autorità pubblica che governa il settore amministrativo ed economico che viene infiltrato”, si legge nella relazione.

“Acquistato, dal sodalizio mafioso, con il metodo corruttivo collusivo, il potere pubblico – si legge nel testo – che viene in rilievo e sovraintende al settore economico di cui si è intenso acquisire il controllo, questo viene, poi, illegalmente, meglio, criminalmente, utilizzato al fine esclusivo di avvantaggiare alcuni (le imprese mafiose e quelle a loro consociate) e danneggiare gli altri (le imprese e i soggetti non allineati)”.

MAFIE IN GRADO DI INDIRIZZARE INVESTIMENTI PUBBLICI
“Assai spesso, è la stessa organizzazione mafiosa che, avendo acquisito le necessarie capacità tecniche e le indispensabili relazioni politiche, individua essa stessa il settore nel quale vi è possibilità di ottenere finanziamenti e, quindi, conseguenzialmente, indirizza ed impegna la spesa pubblica. Si tratta del vulnus più grave alla stessa idea, allo stesso concetto di autonomia locale”. E’ questa la novità introdotta dalla criminalità che vuole aggiudicarsi gare e appalti pubblici, utilizzando la corruzione. Non più soltanto tangenti per entrare nella partita, ma intervento diretto nella elaborazione della stessa attività di ideazione, gestione e realizzazione dei bandi di gara.

“Individuati i fondi necessari, pagato o promesso il corrispettivo al politico che ha dato il via libera e attribuito il finanziamento all’ente locale, chiude il primo passaggio, il primo step, e l’opera può essere messa a gara”, scrive Roberti, sottolineando come “l’impresa del cartello o un professionista incaricato, redige integralmente il bando di gara e lo consegna agli uffici amministrativi pubblici spesso neppure attrezzati tecnicamente a redigerlo”.

“Bandita la gara, si innesta l’attività corruttiva-collusiva tesa a fare coincidere il nome del vincitore con quello della ditta del cartello che aveva prima fatto finanziare l’opera e, poi, aveva impostato il bando di gara (al fine di aggiudicarsela)”, conclude la Direzione nazionale antimafia.

NIENTE (O POCO) SANGUE, MEGLIO LA CORRUZIONE
Il metodo “collusivo-corruttivo” ha progressivamente sostituito omicidi, azioni di fuoco e violenza, sempre più relegate al rango di estrema ratio, ma tanto presenti nella memoria collettiva da avere tuttora valenza intimidatoria. Traduzione, ai clan non serve sparare, anzi non lo ritengono conveniente perché attira attenzione e sottrae consenso sociale, dunque corrompono, comprano, coinvolgono professionisti, pubblici ufficiali e politici anche grazie alla forza di intimidazione che deriva dalla memoria del sangue versato. “Le mafie – si legge infatti nella relazione della Dna –  anche senza l’uso di quelle che si riteneva fossero le loro armi principali, continuavano e continuano, non solo, a raggiungere i loro scopi di governo del territorio, di acquisizione di pubblici servizi, appalti, interi comparti economici, ma continuano a farlo avvalendosi dell’assoggettamento del prossimo (sia esso un imprenditore concorrente o un qualsiasi altro cittadino) riuscendo a porre costui, senza fare ricorso all’uso della tipica violenza mafiosa, in uno stato di paralizzata rassegnazione, nella quale, in sostanza, è in balia del volere mafioso”. Obiettivo? Quello di sempre, il profitto. Che negli anni della crisi sono soprattutto gli appalti pubblici ad assicurare. E le mafie, la ‘ndrangheta in particolare, sono capaci di accaparrarsi su tutto il territorio nazionale, anche grazie al coordinamento della “direzione strategica”, individuata quest’anno grazie alle indagini della Dda di Reggio Calabria.

PROPOSTA DI MODIFICA DEL 416 BIS
Ecco perché la Dna torna a sollecitare – per il secondo anno consecutivo – una modifica del 416 bis, l’articolo del codice penale che disciplina il reato di associazione mafiosa, che permetta agli inquirenti di colpire i clan in questa loro nuova veste, aggravando di un terzo la pena “se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo (..) sono acquisite, anche non esclusivamente, con il ricorso alla corruzione o alla collusione con pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio, ovvero ancora, con analoghe condotte tese al condizionamento delle loro nomine”. Al netto dei differenti stadi evolutivi che mafia siciliana, ‘ndrangheta e camorra stanno attraversando, emerge infatti un tratto comune che la Dna non esita ad identificare in “un inarrestabile processo di trasformazione delle organizzazioni mafiose, da associazioni eminentemente militari e violente, ad entità affaristiche fondate su di un sostrato miliare”. Per questo “gli omicidi ascrivibili alle dinamiche delle organizzazioni mafiose sono complessivamente in calo, mentre il panorama delle indagini mostra un forte dinamismo dei sodalizi in tutti gli ambiti imprenditoriali nei quali viene in rilievo un rapporto con la pubblica amministrazione”.

L’ECCEZIONE NAPOLI E LA FEROCIA DEI BABY CAMORRISTI
A Napoli si spara ancora, ma è un’eccezione rispetto al generale trend della camorra e delle mafie storiche tutte. A differenza di tutti gli altri territori, nel capoluogo napoletano si registra un aumento degli omicidi di chiara matrice camorristica, che nel corso del 2016 passano da 45 a 65. A firmarli – spiega la Dna – sono “killer giovanissimi che si caratterizzano per la particolare ferocia che esprimono ed agiscono al di fuori di ogni regola” ed agiscono in esecuzione delle direttive di “quadri dirigenti che fino a pochi anni fa non erano in prima linea”. Arresti e condanne dei capi storici hanno aperto vuoti di potere che “nuove leve criminali che scontano inevitabilmente una non ancora compiuta formazione strategica” pretendono di colmare. Il risultato è “un quadro d’insieme caratterizzato dall’esistenza di molteplici focolai di violenza”. E in questo contesto – evidenzia con preoccupazione la Dna-  “i quartieri del centro storico che da sempre hanno suscitato i voraci appetiti della criminalità organizzata, in ragione dell’esistenza di fiorenti mercati della droga, delle estorsioni e della contraffazione, hanno rappresentato e rappresentano tuttora la vera emergenza criminale per il distretto di Napoli”.

CAMORRA
Radicalmente diversa e assolutamente in linea con il trend nazionale è invece la situazione nelle aree storicamente controllate dai casalesi e dagli altri clan attivi nel casertano, a nord di Napoli e nel beneventano. In queste zone non si spara più. Ma – si legge nella relazione – “il fatto che in Provincia di Caserta il numero di omicidi commessi al fine di agevolare organizzazioni mafiose, sia pari a quello che si registra, ad esempio, in provincia di Cuneo o Bolzano, cioè zero, non significa affatto che sia riscontrabile un livello ed una presenza della criminalità di tipo mafioso comparabile a quella riscontrabile nelle due province citate a titolo di mero esempio”. Piuttosto, è la manifestazione di una nuova strategia di lungo respiro, basata sull’infiltrazione negli appalti e nei pubblici servizi, “sempre più agevolata da collegamenti stretti con la politica e l’imprenditoria”, piuttosto che sul ricorso alla violenza.

I NUOVI CAPI SONO IMPRENDITORI-MAFIOSI
Una trasformazione in linea con il profondo cambiamento della composizione dei vertici delle diverse organizzazioni camorriste, oggi guidate da quegli “imprenditori-camorristi” che in passato erano uomini di fiducia dei capi militari ed oggi si ritrovano al vertice delle varie organizzazioni. Sono uomini d’affari, non generali. Per questo, “pur mantenendo sullo sfondo la possibilità del ricorso alla violenza, che rimane il sostrato su cui si fonda una intimidazione immanente e perdurante”, la loro strategia è “la via negoziale (quasi sempre illecita), che, altro non è che estrinsecazione del metodo collusivo-corruttivo ad ogni livello”.

COSA NOSTRA SICILIANA
Non sfugge al medesimo trend la mafia siciliana, che al pari se non più della camorra, si è dimostrata in grado non solo di rimanere presente su tutto il territorio regionale, ma è stata soprattutto capace di mettere in atto una “permanente e molto attiva opera di infiltrazione, in ogni settore dell’attività economica e finanziaria, che consenta il fruttuoso reinvestimento dei proventi illeciti, oltre che nei meccanismi di funzionamento della Pubblica Amministrazione, in particolare nell’ambito degli Enti Locali”. Insomma, i clan siciliani non sparano ma ci sono e sanno infettare la “Cosa pubblica”. Dopo gli anni della strategia di “sommersione” seguita alla cattura di Bernardo Provenzano, Cosa nostra sta attraversando una nuova fase – di transizione – tesa all’individuazione di una nuova leadership, ma questo non ha dato la stura ad un conflitto violento fra famiglie. Il tessuto di regole consolidato nei decenni passati – la cosiddetta “costituzione formale” – ha permesso all’organizzazione di “risollevarsi dalle ceneri”. “Cosa Nostra – spiega infatti la Dna – si presenta tuttora come un’organizzazione solida, fortemente strutturata nel territorio, riconosciuta per autorevolezza da vasti strati della popolazione, dotata ancora di risorse economiche sconfinate ed intatte e dunque più che mai in grado di esercitare un forte controllo sociale ed una presenza diffusa e pervasiva”.

MODIFICA NORMATIVA PER COLPIRE I RECIDIVI
A guidare i clan – segnala con allarme la Dna – ci sono spesso storici esponenti dell’organizzazione, che finita di scontare la pena tornano alle vecchie attività. Per questo dal gruppo di magistrati che in Dna si occupa di Sicilia arriva un’ulteriore proposta di modifica del 416 bis che preveda “un meccanismo sanzionatorio particolarmente rigoroso per escludere per un non breve periodo di tempo dal circuito criminale quegli appartenenti all’organizzazione mafiosa che dopo una prima condanna, tornino a delinquere reiterando in tal modo la capacità criminale propria e dell’organizzazione”.

RISVEGLIO DELLA SOCIETA’ CIVILE
Dalla Sicilia arrivano però anche segnali positivi. Soprattutto a Palermo, sottolineano dalla Dna, l’efficace azione di contrasto, unita “all’obbiettiva minore autorevolezza ed al minore prestigio degli esponenti mafiosi, determina condizioni favorevoli affinché il consenso, l’acquiescenza o quanto meno la sudditanza di cui l’organizzazione ha goduto in passato e che già ha perso in parte degli ambienti sociali, in particolare del capoluogo, vengano definitivamente a mancare”. E forse non a caso, a fronte di un numero delle estorsioni sostanzialmente costante, sono aumentate esponenzialmente le denunce.

‘NDRANGHETA
Nessun segnale di questo genere si registra invece nelle terre dominate dalla ‘ndrangheta, tra le mafie storiche di certo quella più in salute. “Si è di fronte ad un complesso di emergenze significative, ancora di più che in passato, di una ndrangheta presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell’amministrazione pubblica e dell’economia, creando – constata la Dna –  in tal modo, le condizioni per un arricchimento, non più solo attraverso le tradizionali attività illecite del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni, ma anche intercettando, attraverso prestanome o, comunque, imprenditori di riferimento, importanti flussi economici pubblici ad ogni livello, comunale, regionale, statale ed europeo”. E non solo in Calabria.

LA COLONIZZAZIONE DEL NORD
I clan non solo si confermano capillarmente presenti su tutto il territorio calabrese, ma giorno dopo giorno si dimostrano in grado di infettare sempre più territori diversi. Traduzione, il contrasto alla ‘ndrangheta non è un problema della Calabria, ma nazionale se non internazionale. Nelle diverse regioni del Nord Italia i clan hanno messo radici solide. Se il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e la Toscana sono per la Dna territori di reinvestimento grazie a operatori economici compiacenti, Piemonte e Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna ed Umbria, sono invece regioni in cui “vari sodalizi di ndrangheta hanno ormai realizzato una presenza stabile e preponderante”. Un’infezione che ha contaminato i territori non grazie al sangue versato, ma utilizzando “il “capitale sociale”, fatto di relazioni con il mondo politico, imprenditoriale ed economico”.

ALLARME GRANDI OPERE
E soprattutto al Nord  c’è un dato che a detta della Dna desta “particolare preoccupazione”: l’attivismo dei vari sodalizi di ndrangheta “nel tentativo di inserirsi – attraverso imprese proprie o, comunque, di riferimento – nei procedimenti aventi ad oggetto la realizzazione delle “grandi opere”, tra cui, in passato, i lavori legati ad Expo 2015, ed oggi la Tav, nella tratta Torino-Lione, nonché la capacità dagli stessi dimostrata, di fare dei più importanti scali portuali del nord – Genova, Savona, Venezia, Trieste, Livorno – degli stabili punti di sbarco dei grossi quantitativi di sostanza stupefacente importata dal sud-America, in aggiunta a quello di Gioia Tauro”. E se un tempo i “camalli” e le loro organizzazioni sindacali erano argine naturale all’infiltrazione della criminalità organizzata, oggi – si legge nella relazione – sono in tanti ad essere al servizio dei clan e questo – constata la Dna – è “espressione e misura del grado di infiltrazione delle organizzazioni mafiose nei gangli vitali della società”.

MINACCIA EVERSIVA
In ragione della sua capacità di contaminazione, la ‘ndrangheta – emerge dalla relazione – è dunque una minaccia per la stessa democrazia. Un dato che diventa ancor più preoccupante ed attuale alla luce del nuovo organismo scoperto dai magistrati di Reggio Calabria. Le indagini del 2016 hanno infatti permesso di individuare la direzione strategica della ‘ndrangheta e alcuni dei suoi componenti. Non si tratta di capi militari ma di professionisti, pubblici funzionari, deputati e senatori. Per i magistrati di Reggio Calabria nella cabina di comando della ‘ndrangheta hanno funzione apicale un ex deputato della Repubblica, Paolo Romeo, massone e vincolato da legami storici e consolidati alla destra eversiva e un avvocato ed ex consigliere comunale, Giorgio De Stefano, legato per sangue e ruolo ad uno dei clan più potenti della ‘ndrangheta tutta. Attorno a loro gravitano un importante dirigente della Regione Calabria, Franco Chirico, un ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra, e persino un senatore della Repubblica, Antonio Caridi, arrestato quando ancora sedeva in Parlamento.

DEMOCRAZIA SCIPPATA
È questo nucleo ad aver deciso tutte le elezioni che si siano svolte in Calabria dal 2001 a – quanto meno – il 2012. Non si tratta – ed è questo il dato nuovo – dell’ormai canonica raccolta di voti per questo o quel candidato, ma di una pianificazione previa degli uomini e degli schieramenti migliori per garantire all’organizzazione appalti, lavori, commesse, scelte politiche e strategiche. Al momento, secondo quanto emerso dalle indagini, la Santa – questo il nome del nuovo organismo è in grado di determinare le macropolitiche criminali di tutto il mandamento reggino. Ma più di un elemento, proveniente da vari territori, sembra far emergere una tendenza al coordinamento al vertice di organizzazioni criminali diverse ma unite da un comune obiettivo, il profitto.

di ALESSIA CANDITO

(La Repubblica.it 22 giugno 2017)

Roma: i clan alla conquista del centro storico

Dal Cafè de Paris, di 8 anni fa, allo Squisito Cook in via del Colosseo di ieri. I tentacoli della criminalità organizzata sui locali della Dolce vita romana hanno ormai strozzato la città eterna. Organizzazioni malavitose che a Roma vengono a reinvestire i loro soldi sporchi, dalla metà degli anni Novanta, e nelle location più prestigiose fanno incassi milionari.

Sono decine i locali sequestrati in diverse operazioni delle forze dell’ordine che dimostrano la conquista del settore economico di Roma da parte della mala. L’ultimo blitz è di ieri, con undici locali che la guardia di finanza ha scovato nel cuore della capitale e a cui ha messo i sigilli. Dal Cafè Veneto di via Veneto al Barrique di via Cavour, lo Squisito Chalet dell’ Eur, All bi one e Subura Miscele e Fuoco, entrambi in via Cavour vicino ai Fori Imperiali, Toy Room, disco club, e Franky’s Kitchen di via Veneto, lo Squisito Cook, di via del Colosseo, il White Cafè, di via del Tritone, Gustando Roma, di via Cavour; Il Molo (ex Bastianelli al Molo), di Fiumicino. Da oggi i rinomati ristoranti e bar tutti riconducibili all’imprenditore Aldo Berti, 68 anni, ma intestati a una serie di società satellite al cui vertice vi erano prestanomi, saranno gestiti da amministratori giudiziari nominati dal tribunale. Il risultato dell’operazione “Dolce Vita” vanta un valore complessivo di 30 milioni.

Un mese fa, era il 18 maggio, carabinieri e fiamme gialle tolsero per sempre alla malavita 12 locali, sempre in centro: c’era il bar Tulipano di via del Boschetto, il Bi&ci di via Ghini, il Blue Night di via San Getullo e il ristorante I Vascellari dell’omonima via. Si trattò, in quel caso, di una maxi confisca che ammontava a 16 milioni di euro, beni che appartenevano a un’associazione di stampo mafioso (composta da 49 persone) sgominata nel febbraio del 2015. Tra gli arrestati c’era il cassiere della camorra che, sbarcato a Roma, ha coordinato le attività del gruppo criminale espandendosi, attività dopo attività, in città. La confisca ha riguardato anche un’attività di affittacamere, case vacanze, Bed and Breakfast e residence.

Tre anni fa tutta la catena di ristorazione e gelaterie del centro “Pizza Ciro”, gestita dagli imprenditori Righi legati alla camorra, fu rasa al suolo dai militari del Comando provinciale. Furono tolti al clan partenpeo 23 locali tra cui la gelateria Ciuccula in piazza della Rotonda al Pantheon, Pizza Ciro di piazza Sant’Apollinaire e quello di via della Mercede. Ancora: Pummarola e drink in via della Maddalena, Sugo uno in piazza Nicosia l’altro in via della Vite e sulla stessa via anche Osteria della vite. Zio Ciro Mangianapoli in via della Pace e Il pizzicotto in via Belli.

Due anni fa fu invece sradicato il clan Moccia e furono segnalati i ristoranti che da loro si rifornivano di mozzarelle e altri prodotti. Si trattava della Baghetteria del Fico, il bar della Pace, gli Ulivi ai Parioli, via Luigi Luciani 23, Quattro Colonne, in via della Posta Vecchia, il Cocoloco sulla Flaminia, dei Buttieri, del Sorpasso in Prati e del Jamma Jà di via dei Baullari. Il centro storico è conquistato.

di Federica Angeli

(La Repubblica 22 giugno 2017

Non solo mafia: Roma e la morte di Falcone

Fu solo mafia? Questa domanda, antica, è riemersa nella lunga trasmissione di Rai1, ricca di ricordi e luoghi importanti, dedicata alle stragi mafiose di Capaci e di via D’Amelio. Il procuratore della Repubblica di Caltanissetta, in una recente intervista al Corriere della Sera, ha sottolineato che nelle indagini ogni pista è stata seguita e tuttavia prove idonee a promuovere l’azione penale verso i cosiddetti mandanti esterni non se ne sono riscontrate. Non c’è motivo di dubitarne, allo stato, ma la domanda resta aperta e la verità, del resto, non è tutta e necessariamente giudiziaria, pur se dalle indagini e dai processi possono trarsi elementi utili e che conviene ricordare.

La scomparsa della “agenda rossa” di Paolo Borselllino è divenuta il simbolo di una verità incompiuta e il processo di revisione della condanna di undici mafiosi innocenti, che si è aperto a Catania, dovrebbe spiegare da chi e perché è stata organizzata un’accurata opera di depistaggio dopo la strage di via D’Amelio. Ma anche l’uccisione di Giovanni Falcone, certamente voluta dai capi di Cosa Nostra, lascia intravedere una convergenza di personaggi e interessi estranei alla mafia di Totò Riina e più vicini, forse, a quella di Bernardo Provenzano. Un noto esperto di esplosivi, nel corso del processo denominato “Capaci bis” ha spiegato come non potesse essere azionato con tanta precisione l’innesco micidiale sull’autostrada, senza una presenza e una strumentazione di alta tecnologia. Nel primo processo un consulente informatico aveva riferito che il computer di Falcone, nel suo Ufficio al ministero della Giustizia, era stato manomesso e alcuni file cancellati prima che giungessero sul posto la polizia e la Procura della Repubblica. Del resto, Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, ha raccontato che Salvo Lima aveva espresso la preoccupazione che Falcone, a Roma, “si mettesse l’Italia nelle mani”. Una preoccupazione politica, dunque, mentre una di natura finanziaria, sempre secondo le dichiarazioni di Siino, l’aveva manifestata Nino Buscemi il capomafia di Passo di Rigano che nel famoso “tavolino” trattava con gli imprenditori del Nord gli appalti siciliani: Buscemi si era molto adirato quando aveva sentito dire a Giovanni Falcone che la mafia era entrata alla Borsa di Milano. Perciò, nel rivedere, ancora una volta, nel servizio di Rai1 il mio battibecco con Falcone, in una famosa trasmissione condotta da Santoro e Costanzo, ho sentito rafforzata la mia contrarietà alla sua decisione di trasferirsi al ministero della Giustizia, che consideravo ambiente inadatto se non infido per svolgere un’azione di contrasto al sistema di potere economico politico e criminale dominante all’epoca delle stragi e capace di riprodursi in ambienti e contesti diversi, come dimostra oggi Mafia Capitale. Un errore grave fu, piuttosto, la bocciatura da parte della maggioranza del Csm di Falcone quale Consigliere Istruttore a Palermo.

Paolo Borsellino, che sedeva accanto a me, nella Biblioteca comunale di Palermo (segno evidente, detto per inciso, che non aveva colto alcuna ostilità nella mia presa di posizione nei confronti del suo collega, come pure qualcuno tenta di suggerire tuttora ignorando peraltro che in un rapporto di amicizia e solidarietà si può non essere d’accordo su alcune scelte) rivelò pubblicamente che Giovanni Falcone sarebbe tornato a fare il magistrato. Un ritorno, anzi un rientro noto a pochi e all’interno del Palazzo, che preoccupò non soltanto i vertici mafiosi, quanto e soprattutto i protagonisti del sistema politico-affaristico in pieno sviluppo a quel tempo. E Borsellino aggiunse nella stessa serata che egli aveva chiesto di essere un testimone nelle indagini sulla strage di Capaci. Cosa ciò significasse, per la scoperta della verità tutta intera, fu immediatamente intuito dalla folla che circondò per l’ultima volta in un abbraccio appassionato il “suo” giudice. Non solo mafia, appunto.
di Alfredo Galasso | da “Il Fatto Quotidiano 3 giugno 2017